Prima di fare "copia" e "incolla"

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martedì 7 febbraio 2012

Il maiale

Il periodo invernale è ricco di feste che, anticamente, avevano come scopo lo stare insieme, il riunirsi in allegria e semplicità, mettendo a disposizione quel poco che si aveva e si era felici, davvero, con poco; senza esibizionismi e rivalità la famiglia condivideva momenti di lavoro e di divertimento insieme.
Prendiamo ad esempio il giorno in cui si ammazzava il maiale; in genere si faceva tutti capo alla casa paterna dove già dai giorni precedenti fervevano i preparativi: mia nonna veniva a piedi dalla campagna fino in città per far molare i coltelli che dovevano risultare ben affilati e taglienti. Si comprava il baccalà da mettere in ammollo affinché fosse giustamente salato per il fatidico giorno; non mancavano le alici che venivano diligentemente dissalate, spinate e condite con olio, aglio e prezzemolo, pane fatto in casa e vino buono. Gli uomini dovevano essere doverosamente nutriti e assistiti prima dell'atteso rito. Ciò ed altre cose facevano parte della colazione, rito nient'affatto trascurabile prima di far la festa al povero porco.
Al mattino ci si alzava presto e subito si metteva un treppiedi sotto al camino e ci si poneva sopra un grosso  caldaio per far bollire l'acqua con la quale pelare l'animale subito dopo averlo scannato e sottratto del sangue che veniva raccolto in un tegame per fare il sanguinaccio, con cacao, zucchero, pinoli, essenza di liquore strega. Allora era ottimo, era la nostra Nutella. E poi come si dice:" del maiale non si butta via niente".
Il maiale era stato nutrito durante l'anno con patate, farina di granone, mele, ghiande, affinché ingrassasse e raggiungesse un peso giusto per soddisfare le necessità della famiglia contadina la cui alimentazione si basava essenzialmente sui prodotti ottenuti dalla lavorazione di tutto l'animale. Quindi era necessario che il maiale facesse una bella dose di lardo e di carne.
Un altro dovere che non si doveva affatto trascurare era quello di andare a pagare il "dazio", una tassa che dava il via libera all'esecuzione dell'animale: a volte si cercava di sgattaiolare non pagandola. Il chiodo fisso di mio nonno era la ricevuta del dazio. Temeva controlli, lui che era onesto ma, purtroppo, anche analfabeta, sicché mia nonna tirava fuori una vecchia ricevuta e la metteva bene in mostra in cucina, sul camino, per placare l'ansia del marito.
In una capiente pentola di creta le donne preparavano il ragù per il gran pranzo; per l'occasione era stato ammazzato il "capone" (pollastro sanato in giovane età, quindi non più adatto alla riproduzione, e cresciuto esclusivamente per mangiarlo). Mentre in un ruoto capiente si preparava la carne con le patate da cuocere sotto la coppa.
Così, espletato il rito dell'abbondante e calorica colazione campestre si procedeva in devota processione verso la stalla del condannato; uno degli uomini faceva un cappio e lo metteva al piede del maiale per non farlo scappare, un altro gli infilava l'uncino alla gola e gli altri attorniavano l'animale e lo accompagnavano lungo il breve, mesto percorso durante il quale il maiale urlava allo stremo delle forze. La bravura stava nel non lasciarlo scappare, altrimenti era finita. Arrivati al tavolo dell'esecuzione, gli uomini tutti insieme lo sollevavano e lo sdraiavano, mentre colui che gli aveva legato il piede provvedeva a legargli  anche gli altri in maniera che non potesse muoversi. Poi gli si buttavano addosso per tenerlo fermo, mentre il "chirurgo" gli sferrava il colpo fatale recidendogli la carotide con "u scannatur". Il sangue usciva copioso e mia nonna, munita di pentola e cucchiaio di legno lo raccoglieva per farne del buon sanguinaccio e girando vigorosamente per non farlo coagulare. Noi bambini, impauriti dalle urla del maiale, osservavamo il tutto da dietro alla finestra, i più piccoli arrampicati sulle sedie di paglia. I nostri genitori ci redarguivano dal dire"poveretto", altrimenti gli avremmo prolungato l'agonia.
Quando il sacro animale aveva esalato l'ultimo respiro uscivamo fuori allegri e curiosi per seguire da vicino tutte le fasi "post mortem". Mio zio era specializzato nel depilè, allora montava le lamette sul rasoio e, mentre qualcuno versava acqua bollente sul maiale, lui lo privava delle setole e lo rendeva liscio come una signorina. Intanto iniziava la seconda fase: il maiale veniva appeso ad un "camigliere" una sorta di grande gruccia di legno resistente che veniva conficcato all'altezza dei tendini delle zampe posteriori. Poi veniva pesato con un "bilancione", una sorta di statera capace di misurare pesi molto grandi e dotato di un uncino che veniva agganciato al livello del coccige ("cacchiatura de le cosse") del maiale.
Dopo essersi complimentati per il buno peso raggiunto dall'animale dicendo "...Sant' Martine...", cominciava lo squartamento: con un coltello ben affilato se ne incideva il corpo dal lato del ventre e si eviscerava, si prelevava il fegato che poi veniva portato ad analizzare dal veterinario, si mozzava la testa e, subito, le donne con solerzia contadina facevano cadere tutte le viscere in una bagnarola e si ritiravano in una cucina grezza per pulirle, grattarle, lavarle con acqua bollente e predisporle ad essere riempite di salsicce saporite, soppressate e cotechini. La vescica del maiale veniva vuotata, accuratamente lavata, gonfiata e appesa poiché sarebbe servita a contenere la salsiccia sotto la sugna. Quindi il maiale restava appeso a sgocciolare e solo il giorno dopo si sarebbe provveduto al depezzamento.
Ma la festa non finiva là, si pranzava, si rideva, si suonava, bastava una fisarmonica per suonare, cantare e ballare fino a notte fonda. Spesso capitava che nevicasse e si doveva tornare a casa a piedi ma ciò non rappresentava un disagio, anzi, l'allegra brigata risalendo dalla campagna verso la città continuava la sua festa per strada, ridendo e scherzando. Il mattino dopo eravamo di nuovo tutti là; cominciava una nuova fase quella del depezzameto e non vi dico... pezzi di carne venivano tagliati spezzettati, conditi con sale, peperoncino, aglio e cotti nella  "fr'ssora" una padella nera sotto al camino; che bontà! Fettine di fegato venivano avvolte nella rete e arrostite, anche le gustosissime animelle venivano fatte arrosto e gustate calde. Gli uomini accompagnavano il tutto con vino buono rosso come un rubino e tanti auguri di "à mmeglie à mmeglie all'anne che vvè".


Nota: per chi volesse, nella pagina "Mutte e teretére" ci sono due poesie di Nina Guerrizio sull'uccisione del maiale: "Lu puorche accise" e "...e salate"

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